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La sposa siriana (2004)


La sposa siriana

(Ha-kala ha-surit) Francia/Germania/Israele 2004 commedia 1h37’


Regia: Eran Riklis

Sceneggiatura: Suha Arraf, Eran Riklis

Fotografia: Micheal Wiesweg

Montaggio: Tova Ascher

Musiche: Cyril Morin

Scenografia: Avi Fahima

Costumi: Inbal Shuki


Hiam Abbass: Amal

Makram Khoury: Hammed

Clara Khoury: Mona

Ashraf Barhom: Marwan

Eyad Sheety: Hattem

Evelyn Kaplun: Evelyna

Julie-Anne Roth: Jeanne

Adnan Tarabshi: Amin


TRAMA: Mona, giovane donna originaria del Golan, sta per convolare a nozze combinate con un cugino siriano conosciuto solo per via epistolare. La felicità per l'evento, già di per sé relativa, è soffocata dal fatto che una volta lasciato il Golan, occupato da Israele, non potrà più tornarvi né di conseguenza rivedere la propria famiglia. La ragazza verrà accompagnata al confine, per l'ultimo sofferto saluto, dal padre, attivista filo-siriano diffidato dalle forze di polizia locali, e dai fratelli, in fuga dalla cultura oppressiva e totalizzante dei propri luoghi natali.


Voto 7

Per addentrarsi meglio nella trama e in special modo nella situazione socio-politica del luogo ove essa si svolge, è necessario prima di tutto chiarie il contesto antropologico, militare e religioso. Il film con cui l’israeliano Eran Riklis si è fatto conoscere in campo internazionale, vincendo nel 2004 il Grand Prix al Montreal World Film Festival, è ambientato a Majdal Shams, il più grande villaggio druso sulle alture del Golan al confine israelo-siriano. Prescindendo (senza minimamente avere intenzione di urtare la suscettibilità degli interessati) dalla questione religiosa - in quanto il termine “druso” è utilizzato per indicare l’appartenenza a un gruppo etnoreligioso costituito dai seguaci di una dottrina monoteista di derivazione musulmana sciita, quindi l’ennesima derivazione laterale dell’Islam - quel martoriato territorio mediorientale è un altopiano montuoso che divenne famoso nei notiziari di tutto il mondo allorché nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, l’esercito israeliano lo occupò e pur restando di diritto territorio siriano è tuttora occupato e amministrato dallo stato ebraico che lo ha annesso alla sua giurisdizione solo unilateralmente, senza neanche il riconoscimento da parte dell’ONU. Ma tant’è. In più, e come un ulteriore elemento di scarso equilibrio, quel popolo è considerato apolide, in quanto si trova a cavallo tra le due nazioni contendenti.

L’aria che tira a Majdal Shams non è del tutto tranquilla: la popolazione è molto controllata dall’esercito occupante, che tiene a bada e sotto costante osservazione gli abitanti più inquieti, a cominciare proprio dal capo della famiglia al centro della storia. Hammed è un filo-siriano che ha già scontato alcuni anni in carcere per le sue scelte politiche e stravede per il re Assad che ha appena ereditato il trono lasciato vacante alla morte del padre. Gli è vietato partecipare alle manifestazioni di protesta con gli altri abitanti e riceve ritorsioni e maggiori controlli proprio per questa sua attività anche in libertà. Dall’altro lato è minacciato di restare isolato dai capi religiosi del luogo in quanto suo figlio maggiore, Hattem, si è sposato 8 anni prima con una donna russa e da allora non ha potuto fare rientro al suo paese. Intanto è maturato il tempo per sua figlia Mona, che deve sposare un celebre attore comico che lavora in un’acclamata serie televisiva nei Revolution Studios di Damasco, in Siria. I promessi sposi non si sono mai incontrati a causa dell'occupazione e quando Mona si trasferirà come moglie in Siria, perderà la sua indefinita nazionalità ma non le sarà mai permesso di tornare a casa: un biglietto quindi di sola andata con tanto di festa. In questo curioso quadro, in famiglia c’è la sorella maggiore Amal (la stupenda Hiam Abbas, spesso presente nei film di questo regista) che ha due figlie ed è in rotta col marito ed è come una seconda madre per la giovane sposa Mona. Infine, va e viene dall’Italia l’altro fratello Marwan, che millanta un commercio imprecisato apparentemente fiorente e che promette aiuti e regali a tutti, specialmente alle donne che rincorre con ogni mezzo accattivante.

Sembra una situazione di partenza per un tipico racconto mediorientale, pieno di profumi e colori, canzoni ritmate e tradizionali, te e ricette ricche di spezie, dove gli agnelli vengono sacrificati per banchetti infiniti. Ed invece no, perché il nostro Eran Riklis, come farà quattro anni dopo con il meraviglioso Il giardino di limoni – Lemon Tree (recensione) e nel 2008 con Il responsabile delle risorse umane, prende spunto dallo status quo e da una vicenda lì ordinaria per trasformarla in una storia assurda e senza logica per mettere in evidenza la insensibile occupazione di Israele nei territori attigui e della stupida ottusità della loro burocrazia, utilizzata militarmente con indifferenza e opacità contro gli oppressi. Basterebbe far caso agli impedimenti che ostacolano la regolare festa del matrimonio di Mona con Tallel, il futuro sposo. La famiglia di Hammed non può oltrepassare il confine presidiato dall’esercito ebraico, quella dello sposo non può entrare nel Golan, bloccata oltre le sbarre della Siria. A questo punto necessita solo il timbro sul documento di identità di Mona da parte di un burocrate funzionario. Timbro che una volta impresso non viene però accettato per un cavillo dall’ufficiale siriano che deve autorizzare il passaggio della ragazza verso il territorio dello sposo. La gentile addetta della Croce Rossa Internazionale presso l’ONU che si sta occupando della pratica, sotto il sole cocente del pomeriggio, fa diverse volte la spola avanti e indietro tra il funzionario e l’ufficiale ma la disputa burocratica non si sblocca.

È su questo equivoco kafkiano che punta il sottile gioco satirico del regista: mostrare le incongruenze e le ingiustizie minimali che causano conseguenze paradossali sulla povera e ignara gente, divisa da quei confini che nessuno di loro ha voluto. Di qua un esercito, di là l’altro; di qua la sposa, di là lo sposo; di qua una famiglia complicata a causa dei vari problemi affettivi e politici, di là la futura famiglia che deve nascere. Ed in mezzo, in una striscia di terra bruciata non solo dal sole, una sposa in attesa che, affranta ed esausta, si siede di fronte al cancello della frontiera su una sedia offerta da un soldato. Finalmente un gesto umano! Più passano le ore, più la povera crocerossina fa la spola, che pur se di pochi metri sembra lontana un secolo, meno sembra probabile potersi risolvere la illogica circostanza creatasi dalla stupidità degli uomini. Si parteggia e si sorride, si soffre con la giovane e bella Mona, e intanto si seguono le vicende familiari di Amal, che tra l’arroganza del marito e la voglia di andare finalmente a studiare all’università di Haifa, deve anche badare alla riuscita del matrimonio della sorella amata, deve salvaguardare l’educazione delle due figlie dalla prepotenza dell’uomo, deve coniugare la severità del padre con il rientro del fratello transfuga. È lei, Amal, che tiene unita la famiglia e cerca di essere la mediatrice necessaria e indispensabile per il buon esito dell’andamento parentale. È lei, Amal, il perno su cui fanno affidamento e che non si tira mai indietro. In questo ruolo, Hiam Abbas (bella principessa araba, come mi piace definirla) come sempre rende magnificamente il personaggio credibile, mantenendo l’equilibrio tra l’insensatezza degli ostacoli civili, religiosi ed etnici e la commedia dell’assurdo che fa da piano conduttore al film di Eran Riklis.


Perché il cinema, anche per esporre problemi reali, sa utilizzare l’argomento “matrimonio” con commedie che variano a seconda degli ingredienti di contorno, come appunto le complicazioni di tipo culturale: l’importante è una adeguata sceneggiatura, che in questo caso è molto efficace, scritta anche dal regista, il quale cerca di trametterci le emozioni e le reazioni dei vari personaggi inquadrandoli spesso in primi piani, visi sempre perplessi e stanchi sotto il dipanarsi degli avvenimenti. Film che diverte e fa riflettere, assecondando come piace all’autore l’esposizione critica verso il suo Paese.



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