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  • Immagine del redattoremichemar

Un giorno di pioggia a New York (2019)

Aggiornamento: 23 mag 2023


Un giorno di pioggia a New York

(A Rainy Day in New York) USA 2019 commedia 1h32’


Regia: Woody Allen

Sceneggiatura: Woody Allen

Fotografia: Vittorio Storaro

Montaggio: Alisa Lepselter

Scenografia: Santo Loquasto

Costumi: Suzy Benzinger


Timothée Chalamet: Gatsby Welles

Elle Fanning: Ashleigh Enright

Selena Gomez: Shannon

Jude Law: Ted Davidoff

Diego Luna: Francisco Vega

Liev Schreiber: Roland Pollard

Rebecca Hall: Connie

Cherry Jones: mamma di Gatsby


Trama: Due studenti, Gatsby e Ashleigh, hanno in programma di trascorrere un weekend romantico a New York. Il loro progetto però svanisce presto, veloce come la pioggia che spazza via il bel tempo. Separati quasi subito, ciascuno dei due piccioncini vivrà incontri fortuiti e situazioni insolite.


Voto 8

Puntuale come il Natale, ogni anno arriva il film di Woody Allen e, se qualcuno tentenna nella decisione se andare a vederlo o no, sbaglia. E di grosso. Dopo ogni visione mi chiedo perché mai dovrei rinunciare al suo cinema così intelligente, leggero, piacevole. Ancora una volta, ci fa tuffare nella sua New York con una storia d’amore tra due persone che devono capire se sono una vera coppia oppure no, se devono continuare, come in questo caso, dopo il weekend programmato a Manhattan o lasciar perdere. Evidentemente per Woody la magia di quella città – la sua città – è il luogo mentale e fisico per parlare del rapporto non sempre facile di coppia. Manhattan, già. La sua magica isola, nel cuore della città più fotografata dai registi, ritorna in maniera clamorosa dopo tanti anni, dopo l’omonimo film che lo rese definitivamente il grande cineasta che conosciamo e stimiamo.

Anzi, filmata così, sotto la pioggia incessante, in una giornata uggiosa, è ancora più bella e romantica. È stato come un tuffo nel passato, nel ricordo di tutti quei film visti da ragazzino la domenica sera, con mille e mille storie newyorkesi, di appuntamenti amori litigi cene romantiche bar, coppie nuove o scoppiate, uomini seducenti e bionde platino, di pianoforti e musiche jazz, di whiskey e Martini “secco, molto secco”. Commedie piacevolissime che riempivano i nostri pomeriggi. Woody ci riporta proprio a quelle spensierate atmosfere e scrive una sceneggiatura così intelligente che quando termina il film vorresti ricominciare per capire meglio quei dialoghi fitti e colti che solo lui è capace di scrivere. Forse non si ride fragorosamente, ma si sorride continuamente e vien voglia di andare a vivere in quei quartieri, con l’unico problema che sono parecchio elitari e adatti per la più facoltosa upper-class americana.

Ed infatti Gatsby, il giovane protagonista, (che nome pesante per un personaggio! non si può fare a meno di pensarci) fa proprio parte di quella classe, discendente di una più che abbiente famiglia di Manhattan, sebbene dichiari continuamente di non ritrovarsi in quel tipo di società, di non voler sfruttare quei privilegi e, mentre frequenta un piccolo college universitario lontano da casa, risolve il problema finanziario vincendo migliaia e migliaia di dollari su ogni tavolo da poker su cui si siede. È un ragazzo colto, suona bene il pianoforte, è cinico nelle sue battute intelligenti ma lo fa con cortesia, ha un’andatura ciondolante (è Chalamet, mi sembra il minimo) e si atteggia ad un minimalismo intellettuale che ha il sapore dell’esistenzialista. Nel college ha conosciuto la sua ragazza, Ashleigh (“senza Y” deve sempre precisare), anche lei da ricca famiglia, dall’Arizona, che vuol fare la giornalista e ama e sa tutto del cinema. Innamoratissimi, lui coglie l’occasione di un favoloso appuntamento - che Ashleigh ha ottenuto per un’intervista con il celebre regista Roland Pollard a New York che non la fa stare nella pelle - per organizzare un romantico weekend a Manhattan. Si prospetta un fine settimana indimenticabile, che Gatsby prepara nei minimi dettagli, dal pranzo alla visita al museo, dalla cena al tour nel quartiere di Soho. Un programma meticoloso scandito da orari ben precisi. Come un terzo incomodo, come un amante che si insinua nella coppia, tra tanti altri personaggi con cui Woody imbastisce la trama, è il tempo l’altro scomodo protagonista, che per giunta che fa saltare il banco. Troppi imprevisti succedono, tanti accadimenti sorprendono la giornata della Ashleigh reporter, e così il programma salta e il solitario e deluso Gatsby deve accontentarsi di alternative, come per esempio conoscere quel peperino di Chan, sorella di una sua ex, una ragazza sim(anti)patica e attraente dalle battute corrosive, che appare e scompare sulla scena alla pari di una fata che soccorre il giovanotto abbandonato a se stesso, lo stimola con frasi sferzanti o lo addolcisce con uno sguardo benevolo, lo abbandona al suo destino e si ripresenta nel peggior momento come una infermiera dell’anima. Ogni intervento di Chan può far venire in mente addirittura il classico coro delle tragedie greche, che illustrano e consigliano, interrompono e riempiono gli spazi temporali. Cosa fa Woody? Li fa incontrare sotto il celebre orologio di Delacorte del Central Park: ancora il tempo che ritma la nostra vita! Dice il regista: “Il tempo avrà ancora un impatto maggiore sulle loro vite: la loro relazione durerà un anno, forse due, dieci, venti o addirittura tutta la vita ma sicuramente si evolverà con il tempo, come qualsiasi altra cosa.”

C’è una scena che magica non è ma che è carica di magia, ed è quando il protagonista, solo e in attesa del ritorno ormai più sperato, esegue al piano Everything Happens to Me (portata al successo da Frank Sinatra, Chet Baker), che canta con dolcezza malinconica:

“I make a date for golf

You can bet you life it rains

I try to give a party

And the guy upstairs complains

I guess I'll go through life

Just catchin' colds and missin' trains

Everything happens to me…”

Sembra scritta apposta per lui e per l’occasione.

Tutto ciò che accade nella trama serve a rafforzare il ragionamento di fondo del film: possiamo fare tutti i programmi che vogliamo, possiamo immaginare ogni minimo particolare del nostro prossimo futuro ma poi chi deciderà sarà il fato e il tempo non sempre può giocare a nostro favore. Ma la lezione che si impara potrebbe essere inutile se non servisse ad aprire la mente e gli occhi e quindi a prendere le giuste decisioni, appunto come succede al nostro giovanotto, che nel finale avrà come un’illuminazione: basta! basta con quell’inutile college sperduto nell’America tanto lontana dal suo ambiente, basta con l’illusione di una finta vita indie, il tempo è sfuggente, è giunta l’ora di crescere e decidere il futuro. Sarà stata l’esperienza newyorkese mal riuscita (perfino la città sembra essersi messa contro per via dei tanti contrattempi), sarà che è riapparsa come un incantesimo nel magico Central Park l’impertinente Chan, fatto sta che Gatsby ha visto meglio dentro di sé.

Woody Allen dirige con la sua proverbiale leggerezza questa commedia sentimentale, all’apparenza senza badare a tanti formalismi e invece curando al massimo ogni particolare, e puntando, come piace a lui, sulla sostanza dei rapporti, sulla complessità delle persone, sulle difficoltà di essere coerenti quando le circostanze ti portano a comportarti diversamente da come pensavi prima. Continua cioè quella che io definisco (modestamente) la sua lunga eterna seduta di analisi che intrattiene con gli spettatori affezionati a lui, come me. Con una differenza importante rispetto ad altre occasioni: il protagonista non è più il suo alter ego, anzi lo fotografa con l’attenzione e con l’affetto che può avere solo un padre verso il figlio, a cui deve dedicare una utile lezione per la sua crescita di uomo.

Mi sembra di aver letto da qualche parte che il regista abbia chiesto espressamente a Timothée Chalamet di non balbettare o gesticolare come lui, di non apparire il suo sostituto (proprio a conferma di ciò che scrivevo prima) e infatti il bravo attore dà un’impronta molto personale al suo personaggio e quindi non cambia né la sua tipica postura né la sua ciondolante camminata con i piedi piatti con cui lo abbiamo conosciuto. È talentuoso, ne ha già dato prova diverse volte e il ruolo di giovane falso bohémien, di cinico anticonformista benestante gli cala a pennello, con quei capelli che gli scendono ai lati della fronte. Suona e canta come un artista di pianobar come piace ad Allen, come un crooner d’altri tempi. Elle Fanning fa.. Elle Fanning, cioè quello che ci aspettiamo da lei, dolce e sorridente come una dea adolescente, per l’occasione infatuata di tutti gli uomini che girano per gli studios, come può accadere solo per una biondina che viene dal lontano West, illuminata dalla fotografia magistrale di Vittorio Storaro (alla terza collaborazione consecutiva con Allen) con luce morbida per esaltarne le qualità del suo pallore naturale. Menzione speciale merita il grande direttore della fotografia, autore di colori straordinari, che in alcuni interni (quelli degli hotel) richiamano alla memoria il bellissimo rosso-tramonto usato per La ruota delle meraviglie (recensione): la cooperazione tra i due artisti sta dando risultati esaltanti.

Seguono altre grandi presenze ma quella che mi ha lasciato il segno è quel tipetto di Selena Gomez nel ruolo di Chan, e non solo per gli acidi dialoghi che Allen le ha scritto ma anche per il suo modo di porsi con quel tondo faccino da prepotente. Ok, anche Liev Schreiber, Jude Law, Rebecca Hall, Cherry Jones, e Diego Luna (che fa l’attore chiamato Francisco Vega e appare vestito come Zorro, e si chiama Vega…) hanno bei personaggi, ma in fondo… credo che contino poco i nomi degli attori: è Woody Allen che ci parla tramite i suoi personaggi e noi ascoltiamo, mentre le piccole vicende tra i due fidanzati si evolvono tra le strade, gli alberghi, i ristoranti e il Central Park.

Doveva essere una parentesi di lavoro, di svago e di sentimenti ma il weekend invece diventa una svolta.



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